Un sondaggio dell’anima

Qualche settimana fa, Franco Berardi ha lanciato attraverso Effimera (e attraverso suoi canali) alcune domande per provare a sondare (senza alcuna pretesa di “supposta scientificità”) gli effetti della pandemia sullo stato di salute mentale e fisico delle persone, su paure, sogni o incubi, sull’amore, il sesso, il rapporto con gli altri, sulla visione della politica anche oltre i confini nazionali. Qui le risposte che sono a lui arrivate e che Bifo ha elaborato e cucito insieme. Ne è uscita una narrazione collettiva, sotto alcune parole-chiave. Sentimenti e concetti ricorrenti. Un sondaggio dell’anima, lo ha chiamato, in modo molto efficace.

Seguiranno altri tentativi di lettura delle risposte che avete mandato al sito o che sono state raccolte da altri componenti della lista e della redazione di Effimera. State connessi

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Terrestri timidi

L’idea di mandare in giro un questionario mi è venuta in mente negli ultimi giorni dell’anno in un momento di solitaria euforia. Non un’inchiesta sociologica: il “campione” è minuscolo e soprattutto è troppo omogeneo sul piano culturale e sociale (studenti, artisti, giovani ricercatori, vecchi compagni). Non mi interessava un’indagine quantitativamente significativa, ma volevo tentar di capire quale sia l’orizzonte condiviso da una comunità culturale omogenea, e (credo) particolarmente sensibile al mutare dello psichismo collettivo. Sondare le trasformazioni affettive, percettive, e soprattutto immaginative.

Cosa si immagina nel doppio senso di: come si prevede che sarà il futuro, e cosa si progetta, cosa si inventa di alternativo al futuro prevedibile.

Un sondaggio dell’anima.

Ho spedito una trentina di questionari e nell’arco di due settimane mi sono arrivate più di venti risposte. Altre continuano ad arrivarmi.

La prima risposta mi è arrivata da Francesca:

“È una emozione ricevere questo tuo appello. La vita pare donarci momenti di grazia se solo osiamo immaginare insieme Mi viene in mente una poesia di sambati:

Le parole come scie

Di spose passano sul cuore

Nient’altro è apparire.

Grazie per apparire

Così

In tale momento

Con tale luminosa mossa

Verso nuove spinte

Nella ricerca del gesto

Che strapperà il destino

All’orrenda bestia

Per ridarlo ancora

a noi terrestri timidi”

L’ultimo verso “a noi terrestri timidi” mi ha fatto una certa impressione perché mi pare che esprima abbastanza bene lo spirito del tempo. Lo so che lo spirito del tempo non esiste, ce ne sono diversi, e divergono. Ma possiamo raccontarcela così: per qualche secolo, in passato, i terrestri sono stati tutt’altro che timidi. Spavaldi, direi, avventurosi, aggressivi e intraprendenti. Ora pare che una specie di timidezza prevalga, almeno tra quei terrestri che conosco meglio, quelli più sensibili e credo consapevoli.

Poi ci sono quelli che per vincere la timidezza si travestono da patrioti. Ma questi non mi interessano.

È significativa la fortuna del pensiero di Mark Fisher tra i lettori colti dell’ultima generazione: Mark Fisher è un pensatore timido.

Ho letto i questionari, tutte quelle parole, una due tre volte, e poi ne ho tirate fuori dei brani, li ho un po’ messo in connessione, ho trovato alcuni fili dell’elaborazione psichica e politica. Ora provo a srotolare alcuni di questi fili.

Limmaginazione sospesa

L’atto di immaginazione contiene due movimenti: è previsione del probabile, ma può anche essere escogitazione di linee di fuga singolari, e di processi di trasformazione collettiva.

Nel duplice senso della parola “immaginazione” mi pare che le risposte dichiarino una sorta di paralisi.

Non immaginiamo cosa accadrà né cosa vorremmo che accadesse.

Dal punto di vista psicoanalitico si può considerare la difficoltà di immaginare (o il vero e proprio blocco dell’immaginazione di futuro) come un sintomo di depressione.

Ma una interpretazione patologizzante rischia di perdere di vista la specificità di questa condizione: la disposizione che prevale nelle risposte che ho letto è quella di una sospensione, non di un blocco.

Chiara scrive:

“In questo periodo l’immaginazione sul futuro per me è cambiata .. ma non saprei dire se si è ribaltata o se forse si è semplicemente purificata da tutta una serie di elementi non necessari di cui facevo fatica a staccarmi.”

L’attraversamento della soglia pandemica prende tempo, e i tempi dell’elaborazione del trauma saranno più lunghi ancora.
Durante la lunga fase di soglia, a causa dell’isolamento il cervello non riesce a funzionare collettivamente. E’ la ragione principale per cui ho intrapreso questa sorta di inchiesta: per alimentare il mio cervello con l’attività del cervello altrui.

Nella condizione pandemica la capacità di immaginare sembra rallentata, con esiti che possono essere depressivi, ma possono anche avere evoluzioni non depressive, ma piuttosto nirvaniche, o contemplative, o in alcuni casi di iper-attivismo fisico (yoga, cyclette, mio fratello ha ristrutturato la casa si è costruito una palestra in garage…).

Non mi è giunta voce di nessuno che abbia occupato il suo tempo di quarantena in frenetiche attività erotiche, anche se alcuni hanno usato quel tempo per fare l’amore più spesso di prima.

Così scrive Alice:

“Sinceramente la vita sessuale di coppia ne ha beneficiato un sacco perché tra lockdown e quarantena abbiamo avuto molto più tempo per fare l’amore e siamo passati da una media di una-due volte la settimana (soprattutto nel weekend quando eravamo più riposati) a una media di una volta o anche due al giorno! Da quel punto di vista è stato un periodo bellissimo.”

In generale però l’erotismo sembra appannato, nell’area culturale cui fa riferimento questa inchiesta. L’identificazione subconscia della libera sessualità con l’irresponsabilità proclamata dalle culture di destra è uno degli aspetti più tristi di questo passaggio.

La sinistra si è identificata con coloro che rispettano le regole, che mantengono il distanziamento, che si comportano bene. C’è uno scambio di ruoli in commedia, per cui i fascisti sono i “difensori della libertà” e i progressisti sono i difensori della legge.

Anche questo segnala la dissoluzione del panorama politico novecentesco.

Dal quadro che si viene disegnando nelle risposte emerge un rimescolamento dell’energia libidica: la consapevolezza tende a manifestarsi come sublimazione, mentre l’espressione del desiderio appare come irresponsabilità o anche come aggressività.

Non emergono contenuti immaginativi di possibile alternativa: un altissimo grado di coscienza etica che si manifesta solo come indignazione, rabbia contenuta, impotente. Non possibilità di azione collettiva, non proposta di alternativa.

Lorenzo, studente, 25 anni, lo dice in modo molto diretto:

“Fare esercizi di immaginazione in questo momento mi riesce molto difficile.”

E aggiunge, con sincerità lancinante: “il Covid mi fa stare più tranquillo perché leva agli altri una vita che io non ho e non ho mai avuto. Tutto ciò è terribile, me ne rendo conto. Però lo sento e forse ignorare questo sentire sarebbe ancora più deleterio.”

E Bruno, giovane insegnante precario, scrive:

“Al momento la prospettiva del mio futuro si è come rattrappita; durante questi mesi ho spesso pensato che il domani fosse solo un buco nero, o che non sarebbe dovuto arrivare affatto.”

Ludovica, studentessa intorno ai 25 anni, scrive:

“Quando ho aperto questo file per la prima volta, ero a casa di amiche. Ho letto le domande ad alta voce, per commentarle collettivamente. Alla prima ci siamo messe a ridere, punte sul vivo da una domanda che ci poniamo quotidianamente ma che ci coglie inevitabilmente impreparate. Un’amica si è messa una mano al petto, mimando un colpo al cuore: “questa fa male”. Penso che la parola-trigger sia proprio “immaginare”. Non immagino niente, ho smesso di immaginare, perché il concetto di futuro è legato ad un’angoscia performativa che mi immobilizza. Sono cresciuta in un mondo che mi ha sempre detto: puoi fare tutto, puoi essere tutto. Dipende solo da te. Poi, quello stesso mondo si è tolto la maschera feroce e mi ha riso in faccia.”

Francesca (una seconda Francesca) operatrice culturale, 45 anni, alla domanda su quali libri o film o musiche accompagnino questa fase risponde:

“La canzone è Space Oddity di Bowie: “Il pianeta terra è blu (che nella lingua inglese significa anche triste), e non c’è nulla che io possa fare.” E poi il ripetere incessante di: Riesci a sentirmi? Riesci a sentirmi? Riesci a sentirmi?“

Niccolò è poeta: quando l’ho conosciuto qualche anno fa era uno slammer, e ora ha pubblicato una raccolta di poesie liriche (Tra ciliegi e Robot). Niccolò, a differenza di altri, immagina; la sua è un’immaginazione bloccata sull’eterno riproporsi di un presente disincarnato.

“I miei prossimi cinque anni li immagino dipinti sullo sfondo di stanze a porte chiuse. Sarà un quieto, spento vivere, senza troppo rumore né ospiti rumorosi giacché l’inquilino semi- sconosciuto con il quale molto probabilmente condividerò l’appartamento starà lavorando per qualche altro semi-sconosciuto in un altro appartamento dall’altra parte del mondo.”

Silvano vive all’estero, lavora nel settore delle costruzioni, e da tempo sta svolgendo una ricerca sull’arte e il pensiero critico negli anni Novanta. Scrive:

“Sì la sospensione della socialità è un effetto irreversibile, ma è un processo iniziato negli anni ’90, che l’avvento di internet e ora il virus ha solo accelerato.”

Margherita, 27 anni, è danzatrice. La danza è simbolo della precarietà felice: penso al simbolo di Occupy Wall Street, quella danzatrice che si libra leggera sul dorso dell’orrendo toro di bronzo che scalcia e muggisce preparandosi a rompere il mondo.

A proposito dei prossimi cinque anni Margherita scrive:

“teatri che non riaprono, pochi fondi, produzioni che calano quindi non si lavora più, condizioni di lavoro, creatività e relazioni così compromesse e sacrificate che mi tiro via io prima. Mollo tutto e faccio altro. Cosa potrebbe essere “altro”? Non so, forse tra un anno insegno Yoga online in modalità full time. Nel caso, so già che fare marketing non mi interessa e potrei soffrire le tassazioni dell’apertura di una partita iva, quindi dubito che le mie possibilità di reddito aumentino.”

Che la precarietà sia una condizione complessa in cui è possibile trovare insieme libertà e asservimento, miseria e ricchezza, lo dice anche Bruno, giovane insegnante precario:

“Per quanto riguarda il lavoro, molto probabilmente farò quello che sto già facendo da un annetto, e cioè insegnare nelle scuole superiori; ora sono precario, e la cosa mi sta bene: l’idea di mettere radici in un posto, o in una scuola, mi spaventa, o meglio mi atterrisce.”

Francesca scrive:

“Credo che questa sospensione della socialità sia atroce e che subiremo tutte e tutti degli effetti nel lungo periodo. Effetti che non svaniranno più. Specialmente i più piccoli la subiranno. Ho due figlie e questo aggrava ogni mia preoccupazione. All’ennesima potenza. Se fossi più giovane ora, non so se farei figli, non so se ora me la sentirei.”

E Chiara, che è danzatrice come Margherita, scrive: “Questa pandemia mi ha fatto vedere a che velocità viaggiavo in ogni giornata.”

C’era bisogno di correre tanto? In questo senso parlerei di “sospensione” dell’immaginare. Se pur non si immagina cosa faremo nei prossimi cinque anni, intanto la vita precedente è in sospensione. E’ come se l’inimmaginabile si fosse imposto con la forza virale di un imprevisto.

Chiara aggiunge:

“Nulla svanirà. Non credo ci sarà un dopo. Questa è un’illusione. L’idea di aspettare può creare solo depressione e falsità. Credo che ciò che sta accadendo ora avrà fortissime ripercussioni, soprattutto sui giovani di oggi. Ho visto qualche adolescente nelle situazioni di seguire le lezioni online. Inconcepibile. Ma la scuola è emersa per come è, e c’è tanto lavoro da fare nella pedagogia. Ho tanto pensato ai bambini davanti al computer, al parco con una mascherina. Bambini che continuano a nutrirsi di concetti come il distanziamento (che poi perché non avremo potuto dire che è “fisico” piuttosto che “sociale”) e fare esperienze virtuali che inibiscono corpo e la mente.”

Marina (30 anni) parla del trauma pandemico in termini di intossicazione e indebolimento:

“Gli effetti saranno di lungo periodo. Nonostante questo trauma pesante che intossica e indebolisce le reti di relazioni credo ancora nella possibilità di fare dei figli su questo pianeta.”

L’immaginazione esita, ma l’immaginario è denso di stimoli distopici. La distopia (letteraria, cinematografica, filosofica) ha finito per diventare la principale fonte dell’immaginazione collettiva. La produzione di Netflix lo testimonia.

Filippo scrive:

“Negli ultimi anni serie come The Handmaid’s Tale, Black Mirror, La Casa di Carta, Il Trono di Spade,….sono state presenza fissa in casa nostra. Avendo frequentato poco il cinema, alcune delle cose più interessanti che abbiamo visto negli ultimi due anni a livello estetico, sociologico, politico vengono dalle serie tv, ma c’è da fare molta attenzione e ricordarci bene Zizek e Fisher. L’immaginario distopico o di resistenza che alle volte Netflix ci fornisce non è altro che la dose consentita e accuratamente pesata di opposizione al sistema attraverso cui il sistema si perpetua.”

Questa apparente paralisi dell’immaginazione di futuro è da intendersi come sintomo di una depressione?

Troppo semplice.

L’immaginazione esita, e l’esitazione è oscillazione tra evoluzioni divergenti ma non per il momento distinguibili.

Solo Alice sembra avere in mente una prefigurazione che spazia su un tempo di più generazioni:

“Secondo me ci sarà qualcosa di grosso che seguirà alla sindemia, qualcosa di molto simile alla terza guerra mondiale, e poi, se non ci estinguiamo, la terra sarà meno popolata e le cose cominceranno ad andare meglio, ma a quel tempo io sarò già troppo vecchia o morta per vederlo. Su questo sono rassegnata: mi è andata così! Pensa a quelli che sono nati negli anni ‘70 o ‘80 dell’800 e si sono beccati la prima guerra mondiale, la grande depressione, poi pure la seconda e alla fine quando è arrivata la pace e il benessere erano ormai vecchi…”

E ancora Alice fa un’ipotesi di respiro biblico per la redistribuzione della ricchezza:

“Un metodo secondo me molto utile e efficace per redistribuire la ricchezza è quello descritto nel vecchio testamento e usato dagli ebrei per secoli, del “giubileo”. Ogni 50 anni per un anno non si lavorava, la proprietà privata veniva annullata, gli schiavi venivano liberati, i debiti annullati, tutto veniva resettato e redistribuito. Un anno intero di festa per ribaltare tutto e riabituarsi al nuovo assetto. Per un attimo all’inizio della pandemia ho avuto la speranza e la sensazione che questo potesse almeno in minima parte succedere, ma ovviamente le cose non sono andate così. Però secondo me il problema non è che il potere e la ricchezza esistano in sè, ma che non circolano e sono nelle mani degli stessi da ormai troppo tempo. Una guerra o una epidemia possono annullare tutto e ricominciare daccapo ma il giubileo come quello degli ebrei ovvierebbe a questo problema, arrivando ad una nuova normalità e un nuovo mondo senza dover passare da distruzione e devastazione.”

Margherita, che pur avendo 27 anni si mette nella categoria dei vecchi che dovrebbero scomparire, propone di far nostro il punto di vista di coloro che non ci sono ancora, dei figli che a lei non dispiacerebbe mettere al mondo:

“Penso che (il contagio) continuerà ad avere degli effetti ma che saremo in grado di godere della socialità comunque. Saremo forse più in grado di prima di godere e basta. Penso che i piccoli e i giovani sono e saranno resilienti e svegli e si muoveranno nel mondo con amore e curiosità, sempre e comunque. Penso che i vecchi, tipo io adesso, dovrebbero scomparire o come minimo stare attenti a quello che dicono.. Dovremmo stare zitti e osservare, dovremmo evitare almeno verbalmente di passare i nostri traumi, di insegnare come vanno fatte le cose, anzi non dovremmo proprio insegnare quello che sappiamo, quello che è stato insegnato a noi.. Dovremmo evitare gli abusi involontari, dovremmo lasciarli fare. So che la mia generazione pensa collettivamente che non fare figli possa risolvere le cose, ma io sto iniziando a pensare che siamo noi il problema, e le generazioni che ci hanno preceduto.. Potremmo fare quest* figli*, andarcene noi e finalmente lasciarle libere e liberi di esistere sulla terra. E basta.”

Prossemica dellevitazione

La domanda se, entrando in un bar, baceresti un* sconosciut* ammiccante e attraente riceve risposte dirette e indirette.

Mackda risponde con pragmatismo un po’ ironico:

“Tanto i bar sono chiusi. Ad ogni modo la mia vita sessuale non è cambiata ma anche questo è un segno dei tempi.”

E Bruno:

“La possibilità di incontrare una bellissima sconosciuta in un bar (semichiuso, coi tavoli distanziati) era effettivamente molto bassa. Ma anche con le non sconosciute non bellissime non mi sono buttato, ecco.”

E Dalia:

“mi sento meno incoraggiata a condividere il mio tempo nel costruire alcun tipo di relazione con persone che non appartengono già alla mia cerchia sociale.”

Letizia invece:

“Se dovessi incontrare di nuovo una persona minimamente interessante conoscendomi lo farei. Forse perché avendo già avuto il covid mi sento in qualche modo maggiormente tutelata, anche se non immune. Sarebbe un gesto irresponsabile ma totalmente istintivo. Poi sarei colta dall’ansia più assoluta probabilmente. In ogni caso è una risposta la mia che va in base all’immaginazione di me in quella situazione. Trovandomi sul serio davanti all’altra persona forse non mi ci avvicinerei neanche a meno di un metro.”

Sarebbe un gesto irresponsabile, dice Letizia. La questione della “responsabilità” è diventata centrale nell’opinione, negli stili di vita, nelle prese di posizione. Il contagio ci ha costretti a mettere il desiderio in secondo piano rispetto alla responsabilità, condizione problematica per l’autonomia.

Bruno scrive ad esempio:

“la scoperta e l’intesa sessuale tra due persone sono le spinte che permettono di osare, di gioire, e di essere più di noi stessi. Quando la possibilità del contatto viene intercisa, o a monte dallo Stato, o dalla propria paura per la malattia, l’orizzonte del nostro senso e del nostro agire si fa di molto più stretto, e, proprio oggettivamente, sterile”

Per tornare alla domanda: la risposta è sì, ma poi dovrei farmi dieci giorni lontano dalla persona a me vicina che sta male, perché non può permettersi di entrare a contatto col virus. Quindi dovrei scegliere, delle due l’una: o restarmene da solo, reprimere e frustrare il mio desiderio, o provare un grosso senso di colpa.”

A proposito dei cambiamenti nella vita erotica Ludovica dice:

“Non è cambiata significativamente. Di certo, incontrando meno persone, diminuiscono le possibilità di incontrare potenziali amanti, ma il 2020 è stato un anno di grande mobilità per me, quindi non ne ho risentito troppo. Credo che per la maggior parte delle persone sia stato molto diverso”.

PS Sicuramente ho notato, intorno a me, un’accelerazione nei tempi di stabilizzazione dei rapporti. Se incontri qualcuna/o che ti piace durante una pandemia in cui c’è pochissima vita sociale e poca possibilità di esplorazione, finisci per tenertela stretta, e in un mese ti trovi fidanzata senza neanche accorgertene.”

Ti trovi fidanzata senza accorgertene. La coppia si impone come soluzione rassicurante e per questo privilegiata, e non è detto che questo arricchisca l’esperienza. Forse no.

Pietro, trentenne, scrive:

“ Sicuramente se abbiamo perso intimità con le persone più lontane abbiamo acquistato intimità con quelle più vicine. Non c’era scampo!”

E Bruno scrive, con un tono che sembra denotare più amarezza che speranza:

“Penso che la socialità riprenderà come prima, all’inizio in maniera più euforica. Ci saranno più matrimoni che divorzi, mi immagino. Ci sarà più voglia di vita, per sé e da dare ad altri. Mi ritorna in mente Don Abbondio (ed è tutto dire, ma perdonatemi…) nel lazzaretto, e il suo discorso sui matrimoni necessari dopo un periodo di morte.

Un pensiero in più: noto che in questo periodo le persone che stavano insieme blandamente (mi si passi questo termine orrendo) si sono più strette. Non so se per la paura di rimanere da soli, o per la condivisione di un’esperienza estrema.”

E Margherita:

“Vivo in un appartamento con il mio ragazzo, in una città di circa 132.000 abitanti nella pianura padana dove sto benino. Ma benino non è abbastanza e, durante il lockdown a inizio dell’anno scorso, ho maturato questi pensieri: vorrei spostarmi in Sardegna, vivere vicino al mare, avere uno spazio all’aperto, vivere con amici vicini, avere un orto. Penso che la vita in due sia meglio che in un*, Ma si è comunque pochi. Se succede qualcosa, da due si fa presto a rimanere sol*. Almeno in tre, ancora meglio in un gruppetto. Pochi ma buoni. Ho bisogno di socialità, ho bisogno che il mio ego, la mia persona, cominci a contare molto meno, nella pratica oltre che nella teoria.”

Stefania per parte sua dice:

“…non bacerei uno sconosciuto incontrato per caso anche perché non l’avrei fatto nemmeno prima della pandemia mi dispiace solo perché ci vorrà tempo per togliere quel senso di sospetto nel guardare e avvicinare chiunque anche chi conosci.”

Gadi, 21 anni, studentessa scrive:

“Ammetto di aver sorriso alla domanda, non perché trovi che sia qualcosa di cui ridere, in maniera quasi infantile, il motivo è semplice, la pandemia ha stravolto la vita sessuale quasi di chiunque, perché dico quasi? La mia è rimasta pressoché invariata, ho sempre vissuto l’idea del sesso e l’esperienza sessuale, con estrema angoscia, a prescindere da esperienze pregresse particolarmente negative. Il sesso, così come qualsiasi cosa preveda del contatto fisico o lo scambio di fluidi, è sempre stato, ai miei occhi, sinonimo di malattia, è qualcosa che evito, per quanto possa sembrare strano, con estremo piacere, non posso fare a meno di pensare a quali malattie potrei contrarre. “E se avesse la mononucleosi? Se si chiama malattia del bacio, un motivo c’è, no? Oddio, potrei chiederlo e se mentisse? Se non sapesse di averlo? E se morissi?”

Poco importa quanto sia rara la malattia, se da anni non ci sono più casi, il terrore di poterne contrarre una, che sia la mononucleosi, l’epatite o l’influenza, è il leitmotiv dei miei rapporti sessuali.

Al terrore del contagio e di eventuali malattie che potrebbero essere mortali solo per me, che ha sempre influenzato ogni aspetto della mia vita, non è un caso il fatto che io abbia sempre evitato luoghi affollati e che io viva circondata da flaconcini di disinfettante, si aggiunge l’essere particolarmente timida, non ho mai baciato nessuno per prima, per cui, no, non l’avrei fatto manco prima, adesso ho, semplicemente, un motivo in più per pensarci su, a prescindere da quanto possa essere bella e affascinante la persona che ho davanti a me.”

Una sensibilità mutante va prendendo forma. Non si tratta né di curarla né di giudicarla, si tratta di comprenderla e al tempo stesso di cogliere nel nucleo malinconico di certi racconti vibrazioni felici, sublimazioni euforiche.

Lucia (68 anni) fa un’osservazione interessante sulla mutazione prossemica:

“Cosa succede oggi?

Che la prossemica spontanea diviene oggetto di coartazione consapevole.

Ho paura (del contagio) quindi sto lontano.

Questo fa diminuire drasticamente la spontaneita’ delle umane relazioni.

Posso dire pero’ che non tutti hanno paura allo stesso modo, e che talvolta….

Spesso incontro un mio vicino di casa, un romagnolo tipicamente chiacchierone, attaccabottoni, socievole e sempre in cerca di qualcuno con cui passare il tempo. Lui mi sta alla larga, x un po’, ma se gli do’ corda nella chiacchiera si avvicina. Se passa qualcuno x strada si riallontana. Tutti movementi piu’ o meno inconsapevoli, ma….. mi fa ottimisticamente pensare che l’umanita’ non si abituera’ alle distanze, o, come dicono oggi, I distanziamenti.”

Niccolò osserva che i mutamento psico-erotico in corso non è un portato della pandemia; questa ha solo confermato e concluso un processo che si svolgeva da anni.

“La mia vita sessuale non è cambiata troppo, se non altro si sono ampliati quei connotati che la rendevano già sufficientemente complessa e al contempo piuttosto comune: pornografia, pigrizia e scarsissima immaginazione. Non troverei tuttavia ostacoli nel riabbracciare l’incontro e l’ambiguità della seduzione, ma trovo che anche da questo punto di vista una rivoluzione sessuale 2.0 abbia stravolto i codici e i linguaggi dell’attrazione ben prima della pandemia. Qualche mese fa sono uscito da una storia di diversi anni e riabbracciando una certa vita erotica ho dovuto fare i conti con una metamorfosi culturale che ingenuamente, in questi anni, mi aveva solamente sfiorato. Se da un lato fenomeni come il movimento MeToo e la nuova onda femminista abbiano parecchio percosso – ma non smosso – i vecchi canoni di genere, dall’altro l’astrazione totale, connettiva e deliberatamente consumista dell’epidemia di Tinder ha pervaso strade, letti e toilette occupate. L’estetica e la semantica dell’atto d’amore non sono più le stesse e se il terrore mediatico dilagante genera terrore del corpo altrui, questo fenomeno trova un terreno fertile in un mondo sessuale caratterizzato da app di incontri fatte a misura per i propri gusti atrofizzati. All’ambiguità si viene a sostituire la fredda certezza, al gioco del corteggiamento l’abbonamento Premium, al bacio al chiaro di luna la dick pic.”

Credo che stiamo attraversando una ridefinizione inconscia della prossemica, disposizione dei corpi nello spazio, percezione di sé in rapporto agli altri.

E’ significativo il fatto che tre intervistati hanno riferito di un automatismo cognitivo che posso testimoniare di avere verificato anche in me stesso: quando vedi un film in cui la gente si affolla senza protezioni provi imbarazzo per un istante, e c’è qualcosa in te che si chiede: ma com’è possibile, che stanno facendo?

Filippo scrive:

“l’estetica da pandemia fatta di distanziamento, mascherina e sensibilizzazione fobica dell’altro si è sedimentata anche nel mio immaginario e spesso, quando guardo ad esempio un film, mi sorprendo irrigidito a chiedermi: “E le mascherine? Non hanno paura di essere contagiati?”

E Alessio:

“Non posso negare di essere molto più attento a trovare un distanziamento piuttosto che un avvicinamento sociale. Ho trovato particolarmente interessante una mia reazione istintiva (che condivido con altri), ad esempio guardando film. Quando vedo persone troppo vicine o che si abbracciano o senza mascherina, mi viene sempre pensato che è qualcosa di strano, percepisco qualcosa di sbagliato. Devo comunque aggiungere che sono costantemente in contatto con un familiare ad altissimo rischio, per questo motivo ho ridotto al minimo le mie interazioni umane.”

E Ludovica:

“A volte, guardando un film, se i personaggi si ritrovano in una stanza in gruppo senza mascherine, o se si baciano, toccano, o avvicinano troppo, mi sale un momento di angoscia-covid. Mi rendo conto che la pandemia è stato un trauma collettivo: ne siamo ancora dentro, i traumi si metabolizzano quando sono finiti. Ho vissuto in Inghilterra e ricordo la tristezza di un luogo in cui le persone non si toccano, non si prendono confidenze, non si abbracciano. Ho paura di un futuro del genere: come possiamo metabolizzare il trauma in modo positivo?
Dall’altro lato, però, ricordo l’estate del 2020: finita la prima ondata, la gente si è riversata nelle spiagge alla ricerca di un po’ di felicità collettiva. L’Italia è un paese con una forte tendenza all’everyday resistance, nel senso in cui lo intendeva James Scott: questo mi dà fiducia.”

Questa ridefinizione inibitoria della prossemica, per cui il distanziamento si trasforma da regola sanitaria esterna in automatismo cognitivo, non passa inosservata, non è inconsapevole. E’ oggetto di un’elaborazione i cui esiti restano indeterminati. E’ qui che emerge il ruolo di un’azione culturale, poetica, visuale, musicale e naturalmente psicoanalitica, o forse meglio schizoanalitica.

Nel passaggio della soglia si svolge l’elaborazione del trauma. E cosa ne verrà fuori non lo sappiamo, ma stiamo cercando. Lo dice bene Costanza:

“Non ho avuto vita sessuale nell’ultimo anno… Ma va anche bene così, ho ricalibrato i miei desideri e le mie necessità, cercando di orientarle verso ciò che realmente desidero.”

All’ultima domanda, “parteciperesti a un seminario zoom?” Dalia risponde ammiccante:

“Yess, ma solo se poi ci vediamo anche di persona.”

mentre Laura dice:

“per me non è cambiato nulla – sto in bramachariato da molto tempo”

e Pino conclude con ironia struggente:

“La mia vita sessuale è una delle cose che la scarsità di lavoro m’ha spinto progressivamente a mettere tra parentesi. Capisco che non suona bene, ma è la verità. Chiaro che per fare l’amore non servono soldi, ma questo sarebbe un discorso lungo. Per la sconosciuta direi che non gli avrei detto di sì nemmeno lo scorso anno. Ma l’altro giorno mentre mi allenavo ho incontrato Micaela Ramazzotti che correva in direzione opposta. Mi sa che a lei avrei detto di sì.”

Corpo a corpo

Una domanda del questionario chiede cosa pensi della frase di Malcom X, sul fatto che occorre difendersi con tutti i mezzi necessari. Era un modo per capire che pensiero sta maturando a proposito della violenza come passaggio che talvolta appare inevitabile. Il problema si è riproposto con la rivolta dei giovani americani, neri, latinos e precari bianchi. Quasi tutti gli intervistati hanno seguito la rivolta con partecipazione appassionata, hanno sposato le ragioni del movimento, anche delle sue manifestazioni estreme, ma sul tema della violenza come arma politica esprimono opinioni e sentimenti che non hanno niente a vedere con il vecchio discorso ideologico anni ’70.

Neppure si tratta di un rifiuto puramente etico della violenza, o di una rivendicazione etica della necessità della violenza. Né ideologia né etica.

Quella che mi pare di avere letto è una risposta estetica, una risposta della sensibilità.

Non vorrei essere frainteso ma mi pare che il rifiuto della violenza politica, il rifiuto del corpo a corpo che tanto eccitava i rivoltosi della mia generazione, sia un aspetto della mutazione, della tendenziale dis-incarnazione dell’erotismo. Un erotismo che si manifesta in forma di sublimazione estetica si va delineando all’orizzonte della pandemia? Un’umanità cortese e timida che non viene alle mani, ma neppure disapprova ideologicamente forme estreme di autodifesa. Non rifiuto della violenza, ma repulsione per la violenza.

Margherita scrive:

“Ho seguito senza tregua, a distanza, con spirito di grande solidarietà, grande sconforto e grande sorpresa le rivolte nel mondo a seguito dell’assassinio di George Floyd. Biden è un conservatore e per fare la differenza dovrebbe fare qualcosa di molto radicale, temo assolutamente fuori dalla sua capacita di agire, intendere e volere, come per esempio: togliere fondi alla polizia e ricominciare da zero. Penso questo sia quello di cui hanno bisogno negli Stati Uniti dell’America del Nord, e dovrebbe essere accompagnato dal dare totale indipendenza ai territori indigeni e ai loro pochi sopravvissuti abitanti. Penso però che le nuove generazioni chiederanno a Biden di ascoltare, e penso che questa amministrazione ascolterà, raccoglierà qualche pezzo. Il resto sarà in mano al futuro.

Ci si può difendere dalla polizia (senza utilizzare violenza) a partire dall’educazione; sarebbe bello disimparare un po’ di cose e imparare che la polizia come la conosciamo ora non è un’opzione, come non lo è l’esercito, non ci si arruola, non ci si identifica, non ci si allena, non è una carriera, non è un mestiere. Bisogna smantellarla, decostruirla, assieme a tutto il resto delle forze oppressive sociali e culturali. Un sogno? Forse.”

Bruno filtra la violenza di cui tutti siamo stati spettatori nei giorni di Minneapolis attraverso la sua personale esperienza della malattia, della paura del contagio.

“in quei mesi ero talmente focalizzato sulla pandemia, direi paranoicamente focalizzato sulla pandemia, che tutto il resto l’ho avvertito e ascoltato come da dentro un acquario. Mi sono reso conto della portata del movimento (e della sua immediata brandizzazione, so American…), mi sono sentito male di fronte al video dell’assassinio di Floyd, così come era stato con quello di Garner, ho letto vari editoriali (compreso quello, abbastanza anacronistico, di Saviano…) ma non sono andato oltre. Ciò che ho pensato, e che continuo a pensare dopo l’assalto al campidoglio di qualche giorno fa, è che in America la frustrazione e la rabbia bianche, della polizia o dei civili (armati come rambo), sono al limite dell’implosione, e che, paradossalmente, ora che non ci sarà più Trump in qualità di direttore d’odio, la situazione potrebbe diventare peggiore di quel che già era.”

Filippo osserva l’esplosione della violenza sociale senza rifiutarla, anzi considerandola come l’unica possibilità.

“Quando ho visto bruciare la stazione di polizia di Minneapolis, ho pensato che questa volta si faceva sul serio e non credo ci sia altro modo che non “con ogni mezzo necessario”, o almeno se c’è non lo vedo. Anche a causa delle rivolte di quest’anno, qualcosa si sta muovendo nella sensibilità collettiva di coloro che non sono totalmente intossicati dal morbo identitario, ma direi troppo poco e troppo tardi. Gli intossicati mi sembrano aumentare. La violenza poliziesca verso gli afroamericani riflette una prassi storica che non si interrompe certo con l’elezione di un Biden, e il raccapricciante laissez faire nei confronti dei fascisti che hanno preso il Campidoglio a DC è la più disgustosa delle testimonianze. Forse con Sanders avrebbe potuto essere diverso, ma non viviamo in un mondo in cui un Sanders diventa presidente, semplicemente non succede. Non credo cambierà nulla con Biden, il quale in generale mi pare solo in grado di rafforzare tutto ciò che portò all’elezione di Trump. Non solo “con ogni mezzo necessario” è l’unico strumento di protezione contro la violenza della polizia, ma è anche l’unico strumento di ricostruzione di un’estetica di dissenso che si è completamente perduta (lungi da me allineare questo discorso al paternalismo inconcludente della generazione dei 68 o 77 di cui ho assolutamente piene le palle).

Pietro mette ironicamente in scena l’ambiguità della sua partecipazione emotiva.

“Devo dire che in maniera un po’ macabra ho sperato che la violenza della società americana venisse ancora più a galla, che per una volta se la facessero a casa loro la guerra. Non ne vado particolarmente fiero.

Rispetto all’uso della violenza non sento di potermi esprimere semplicemente perché sono un cagasotto e non avrei le palle di fare tante cose che andrebbero fatte. Di sicuro non condanno e non mi dissocio quando la natura si difende violentemente da chi la vuole sradicare. Il potere finisce dove inizia la violenza. Però non sono capace di violenza su un altro corpo. La mia violenza è intellettuale. Che comodità! ????”

Al contrario Costanza, dopo aver dichiarato che episodi come quello di Capitol Hill la scoraggiano, esprime l’auspicio che la democrazia e il buon senso prevalgano:

È una storia triste che mi scoraggia. Sono una persona dall’indole poco rabbiosa, perché penso che con il dialogo si possa costruire ciò che manca. Ovvero umanità e senso critico. Mi auguro che le persone preposte all’insegnamento dell’antirazzismo riescano nel loro compito. Non credo che rispondendo con violenza alla violenza la violenza originaria cessi, spero solo questo pensiero lo abbia la maggioranza e che il sistema resti democratico.”

E Martina parla di quel che è sopravvissuto della sua socialità:

“Impegno politico: costante tentativo di creare un mondo migliore. Forme di organizzazione autonoma: il vicinato. Unica socialità sopravvissuta nella mia esperienza da Marzo 2020 ad oggi, capace di creare pratiche politiche ‘utili’ per me. Credo ancora nello spazio per cambiare.”

Niccolò scrive:

“Venuto meno il velo di Maya, non credo riusciremo più ad ignorare il vorticoso collasso dei nostri modelli sociali e culturali e credo che ci troveremo a fare i conti con le forze più selvagge, brutali e latenti. Penso che forse allora sì, qualcuno potrà bussare alla porta di Bezos, ma date le circostanze più recenti ed una lieve malinconia che oramai mi accompagna da almeno due stagioni, temo che quella persona sarà avvolta da una bandiera degli Stati Confederati e porterà due corna vichinghe sopra il capo.”

Il sentimento che emerge da queste parole, mi pare, è che siamo in una dimensione destinata all’ineffettualità. Noi timidi, noi cortesi respingiamo sdegnosamente il nuovo dominio, arrogante e rapace del cripto-capitalismo delle piattaforme. Ma non saremo noi a sconfiggere quel dominio. Saranno semmai i nazional-psicopatici un po’ barocchi e un po’ gotici.

Stefania è dubitativa, possibilista:

“Direi che la violenza poliziesca continuerà, direi ha ragione Malcom X, ma servirà seguire l’utopia?”

Anche quando si parla di temi che un tempo si trattavano coi piedi di piombo (piombo, piombo) mi pare che adesso prevalga il passo di danza.

Il corpo a corpo, il contatto sensuale e lo scontro violento divengono problematici, imbarazzanti, percettivamente sgradevoli: Unheimlich, nel preciso senso freudiano di perturbante e familiare. Il sesso non è scomparso dall’attenzione, ma è sempre più spesso relegato nello spazio pornografico del virtuale, mentre il desiderio è depotenziato dalla sanitarizzazione del corpo.

La violenza non è scomparsa dal panorama sociale della fase sindemica. Tutt’altro. Aumentano nelle case le violenze contro le donne e i casi di femminicidio. Ai confini d’Europa la violenza contro i migranti è talmente sistematica da non costituire più un oggetto di attenzione, come non era oggetto di attenzione la presenza di un campo di concentramento per gli abitanti del villaggio di Auschwitz.

Ma la violenza sta là fuori, lontana, marginale, repellente. Unheimlich.

L’esperienza stessa della morte è relegata in uno spazio di non visibilità.

Lo osserva con acutezza dolorosa Bruno:

“…vorrei dire un’altra cosa, che riguarda l’altra faccia della sessualità e del contatto tra i corpi, e cioè la morte… Non solo questo virus di merda non permette ai morenti in ospedale di poter andarsene con i loro cari accanto, ma impedisce anche a coloro che stanno affrontando una malattia terminale di finire, per dir così, in modo umano, di levarsi gli ultimi sfizi (sto dicendo delle bestialità, ma sintetizzo), di spegnersi tranquillamente vicino al proprio compagno o alla propria compagna, ai propri figli, che magari lavorano lontano. Il virus sta togliendo anche la morte, a queste persone. E l’esperienza del morire è ciò che di più intimo ci resta, quando non ci resta più niente.”

(Bruno)

E Romano, un amico mio coetaneo, scrive:

“la progressiva (anche se spesso inconsapevole o involontaria) “sdrammatizzazione” della morte attraverso la “smaterializzazione” delle vittime, diventate le migliaia di numeri che quotidianamente i media presentavano (e continuano a presentare) come indici di riferimento dell’andamento della pandemia. Numeri, non esseri umani deceduti, non storie di vita, non affetti, non lutti, non sofferenze di chi sopravviveva loro: numeri. E non si trattava di “quegli altri” ossia delle vittime di altri paesi, di “altri” mondi, distanti verso i quali l’interesse si era tutt’al più “consumato” a cena durante i telegiornali che informavano delle vittime di tragedie, di guerre, di epidemie, di fame degli “altri mondi” appunto, lontani da quello che, nel bene e nel male, ritenevamo il “nostro mondo protetto”. No, a trasformarsi in “numeri” erano i vicini di casa, erano gli abitanti dello stesso quartiere, della stessa città o della città vicina, della stessa regione e della stessa nazione o comunque abitanti di quello stesso “nostro” mondo distante dalle tragedie, dalle guerre, dalle epidemie, dalla fame degli “altri mondi”.”

Sconcerto

Nella sua risposta Max (45 anni, Bologna) segnala lo sconcerto come categoria cognitiva da approfondire. Prima di tutto parla del suo personale sconcerto di fronte alle domande del questionario:

“Ho letto il questionario e l’ho trovato sconcertante, nel senso che mi ha messo un po’ sottosopra, strapazzato in una lavatrice. Io lo trovo molto sensato e qualche risposta sto cercando di darmela nella testa, dialetticamente scisso fra un me di pochi anni fa, in giro per eco-villaggi attorniato da sciamani burloni, da circensi a passo di cavallo, dai più improbabili carrozzoni di bizzarria e improvvisazione, improvvisare come far studiare i figli, come andare avanti quando non hai più l’età per smazzare o per fare le acrobazie su una corda un po’ logora. certo il me di oggi dalla sua bolla oppioidi vede come attraverso un vetro deformante, che impasta i contorni del mondo, un mondo distante che poco mi interessa, non mi riguarda.”

Ma poi parla dello sconcerto che la prospettiva sindemica ha generato nelle culture marginali non meno che in quelle popolari:

“Se volessi dire qualcosa che riguarda i movimenti politici che osservo da sempre, il movimento psichedelico, posso dirti che è uno strano momento di crisi e tensioni intestine. C’è stata una imprevedibile torsione (per me non lo era affatto e alla “family” – di sto cazzo – l’ho sempre predicato): new-agers e nazisti dell’Illinois si ritrovano nelle stesse piazze, come in italietta gli scalatori di montagne sacre o gli organizzatori dei festival trasformativi stanno a sputacchiarsi in faccia in piazze sparute al grido di “nun ci nnè coviddi”. Le gerarchie delle uniao do vegetal in brasile si sono schierate con bolsonaro, come non avesse mai detto “gli indios puzzano e dovrebbero spostarsi nelle città”.

Sconcerto vuol dire scardinamento cognitivo, ma anche scardinamento degli ordini del mondo, delle regole di scambio, delle tavole dei valori etici ma anche dei valori economici. Il concerto che si fondava sulla scala tonale della ragione economica è andato a farsi fottere. Ora non c’è più concerto, ma ordine automatico ineludibile. Ordine sanitario.

Sul piano globale l’ordine gerarchico coloniale si riafferma nella distribuzione del vaccino: disponibile per la popolazione del nord del mondo e difficilmente accessibile per la popolazione del sud del mondo.

Il capitalismo globale sarà dominato dal settore bio-tech e da quello info-digitale, ma non dobbiamo pensare che il processo di costruzione del tecno-totalitarismo bio-info si svolgerà linearmente; la disgregazione virale scardina le forme economiche e finanziarie consolidate in epoca neoliberale; dallo scardinamento emergerà l’urgenza di una reinvenzione radicale del rapporto tra produzione e consumo.

L’immensa esplosione dell’indebitamento degli stati nazionali rende il debito per tutti insostenibile: tutta l’architettura dell’economia finanziaria appare fragile anche se il regno astratto e autoreferenziale delle borse resta (finora) impermeabile alla catastrofe generale.

Il discorso post-liberista della Teoria Monetaria Moderna, (vedi The Deficit Myth di Stephanie Kelton) tenta di liberare il capitalismo dalla corazza del bigottismo monetario thatcheriano. Ma è troppo tardi. Non è solo il concetto di deficit a non aver più senso né coerenza: è il concetto stesso di debito che perde consistenza. Un’onda di insolvenza generalizzata diviene quasi inevitabile, e forse addirittura un processo di rapida obsolescenza della stessa forma-denaro. Si apre qui forse lo spazio di un’immaginazione fondata sul principio dell’utile come ragione dell’agire sociale: non più lo scambio, non più l’accumulazione, ma l’utilità concreta, il rapporto frugale con le cose.

L’automazione digitale della comunicazione tende a divenire integrale, tende a prefigurare la (auto)costituzione dell’Automa cognitivo globale. Ma attenzione, quanto più complessa diviene la rete tanto più esposta si troverà al sabotaggio, all’errore, al blocco. Negli ultimi mesi abbiamo assistito ad alcuni episodi significativi, che suonano come un campanello d’allarme: il breve tilt del sistema Google nel novembre 2020, il crash temporaneo di alcuni sistemi di chat tra dicembre e gennaio, e soprattutto il fantastico hacking del software Orion di Solar Winds da parte di hackers di cui non si sa quasi niente. La guerra a venire sarà prevalentemente guerra informatica. Ma gli effetti potranno essere più catastrofici di un bombardamento aereo. L’automazione crescente del sociale, l’affidamento di larga parte della nostra vita relazionale all’automa ci renderanno fragili di fronte al sabotaggio mirato da parte di agenti nemici senza identità riconoscibile.

Quanto più avanza il progetto di (auto)costruzione dell’automa cognitivo, tanto più complessa diviene la macchina connettiva e al tempo stesso tanto più fragile diviene il suo funzionamento. Fragile e complessa: se si rompe non sarà facile ricomporla.

Ciò significa che noi stiamo mettendo le nostre vite, le nostre relazioni, e perfino la nostra sopravvivenza nelle mani di un sistema di mediazione tecnica la cui fragilità complessità e interdipendenza è molto maggiore dei sistemi di connessione meccanica del passato (la rete ferroviaria, ad esempio). Il black out di una rete si fa tanto più pericoloso e dirompente quanto più questa rete è pervasiva e indispensabile alla sopravvivenza.

Forse la politica va ripensata a questa altezza: come riattivazione di circuiti di comunicazione e riorganizzazione in situazioni di black out.

Occorre pensarci da subito, occorre da subito ragionare sulle possibilità che si aprono a un’avanguardia organizzata del lavoro cognitivo nell’epoca del caos, nella quale siamo entrati. L’automa cognitivo è complementare al caos naturalmente; quanto più caotica è la sfera economica, psichica, militare, tanto più il governo si concentra negli automatismi.

Prepararsi a gestire ogni spiraglio di black out dell’automa è il compito strategico che si delinea alla minoranza cognitaria autonoma.

La politica ha perduto l’aura di potenza della volontà che possedeva nell’epoca moderna.

Per riacquistare una funzione utile la politica dovrebbe convertirsi in pratica di redistribuzione delle risorse, restituzione di ciò che il colonialismo ha rapinato, regola dell’uguaglianza economica e cultura della singolarità differente.

Non dico affatto che nel prossimo futuro ne saremo capaci. Credo che prima di giungere a questa consapevolezza occorrerà attraversare la terra incognita del caos, nella quale il contagio ci ha gettato ma che da lungo tempo si stava rivelando all’orizzonte.

Secondo Dalia:

“non bisogna RIDISTRIBUIRE, MA BISOGNA ABOLIRE l’economia come ci è stata imposta. Io penso sia necessaria dare una dimensione fattibile alla capacità di presa delle persone. Pertanto inizierei creando piccoli gruppi di affinità, all’interno dei quali condividere ricchezze ed averi, esercitare micro società e attraverso il supporto della microcomunità lentamente iniziare a rifiutare qualche privilegio sottraendosi da tutto ciò che rende questi superpotenti così potenti. Il punto è che le persone hanno dimenticato che la loro forza è nel collettivo, un collettivo tutto da rinegoziare.”

In un volo pindarico-strategico che sintetizza bene questa visione “politica”, Dalia scrive:

“I movimenti sociali avrebbero potuto mutare qualcosa se la direzione chiara fosse stata quella di non avere assolutamente a che fare con la politica del tempo. Il cambiamento non viene per opposizione, ma per proposizione e pratica. La rivolta rumorosa non serve a nulla se non a farsi scoprire. Io sono una grande fan dell’’hold (la stiva della barca) tanto cara a Fred Moten e Stefano Harney negli Undercommons, è nell’oscurità che si crea un nuovo mondo. Sia chiaro un nuovo mondo non deve per forza cambiarne uno vecchio, ma deve e può differenziarlo.”

E Bruno, con realismo anti-capitalista:

“penso anche che un lavoro giusto, o accettabile, è un lavoro che, in nessun caso, ti dovrebbe far pensare che, anche per sua causa, hai fatto una vita di merda se dovessi morire domani. Un lavoro equo, negli orari e nei guadagni, che lasci spazio alla vita di essere vissuta, e a ognuno la responsabilità di vivere la sua esistenza. Perciò diamo a cesare quel che è di cesare, ma con moderazione, e teniamoci per noi ciò che resta, e cioè quello che conta. Lo slogan mi pare fosse questo: lavorare tutti, ma di meno (e mi pare lo abbia riproposto di recente l’Avvenire). Certo che questa è una generalizzazione, e quindi una semplificazione, che tra le altre cose non tiene conto di un continente e mezzo, almeno. Come la mettiamo poi col fatto che una serie di lavori sono destinati a scomparire? Come la mettiamo coi medici? Vorremmo che anche loro lavorassero meno? Può essere un bravo chirurgo un chirurgo che opera poco? Oppure come la mettiamo coi lavoratori in senso lato culturali, che, proprio come ho fatto io, si mettono sempre sotto pressione, senza orari e senza essere pagati, solo per un fatto di prestigio, o di un ritorno senza garanzie, perché quella è la loro PASSIONE (letteralmente)? La risposta potrebbe essere: più soldi e più posti nella sanità pubblica, più soldi e più posti nel mondo della scuola e della ricerca, più soldi e più posti per la cultura. Ma a rileggerla mi sembra la solita formula spicciola dei peggiori politicanti…

Pietro scrive:

“La follia (e la speranza è un tipo di follia) e la poesia sono due degli stati mentali e attenzionali con cui si gestisce questo scarto. Sono come ci rapportiamo con l’ignoto. Sono ciò che ci permette di realizzare il nostro destino anzi che abbandonarci alla fatalità. Dissociano momentaneamente il desiderio e la probabilità, per un attimo esso vola al di la del probabile e si scaglia come Don Chisciotte in una rivoluzione improbabile. Come usare (o forse essere usati da) follia e poesia per accompagnarci nella realizzazione incerta del nostro destino….? Chissà, forse condividendole, in questo la poesia ha un indubbio vantaggio, forse è proprio follia condivisa. Don Chisciotte da solo non poteva nulla contro i mulini a vento, ma 100 di lui avrebbero cambiato il loro destino. Ecco forse la follia è come gestiamo quel grado di incertezza che la nostra mente sola non può gestire proprio perché è sola.

Ritornando a me mi chiedi cosa prevale? Dipende, quando condivido pensieri come questi, quando insieme si pensa e si fa in me prevale l’eccitazione e la gioia e francamente penso poco all’esito finale. Anche l’estinzione insieme non dev’essere poi così male.”

Una forma possibile della politica a venire sarà la ridefinizione del rapporto con le risorse disponibili, e la redistribuzione delle risorse.

A proposito della presente distribuzione delle risorse, Damon scrive:

“Le mie possibilità di reddito da lavori che rientrano nel mio fare si sono azzerate, mentre quelle dai lavori cattivi, quelli che arricchiscono solo i ricchi e soddisfano solo gli straricchi, sono più che triplicate. Per assurdo, guadagno di più, spendo di meno e sono sempre più infelice.”

Dissociare la felicità dal consumo non significa affatto rassegnarsi alla rinuncia, ma ripensare sia il consumo che la felicità. Ma perché questo possa divenire un programma realistico occorre modificare la distribuzione delle risorse, distruggendo il potere dell’astrazione monetaria sulla relazione sociale.

Ma chi possiede la forza per distruggere il potere dell’astrazione monetaria? Nessuna forza politica, nessuna soggettività organizzata, anche se questa esistesse (e non esiste). Solo il caos può farlo. E stiamo per l’appunto entrando nel periodo caotico, in cui non soltanto la volontà politica perde ogni potenza, ma anche il potere economico tende a disgregarsi, perché sulla scena del mondo ha fatto finalmente la sua comparsa il solo attore che sia più forte dell’astrazione: quell’attore è la morte, che la cultura moderna ha rimosso dalla scena del visibile, del dicibile, del computabile.

Naturalmente la morte non era mai scomparsa davvero, ma l’accumulazione di valore ha preso il posto dell’eternità. Anche durante le guerre più mortifere il potere dell’astrazione ha prevalso sul potere della morte.

Sarà così anche questa volta? Può darsi, e in effetti le grandi corporazioni della farmaceutica, della biotecnologia e della connessione emergono come dominatrici della scena economica (e politica) del futuro.

Ma non è detto che il loro potere sia più grande del potere del caos.

Quel che possiamo fare è solo questo, dunque: creare condizioni culturali che favoriscano la riorganizzazione delle relazioni sociali al di fuori della regola dello scambio. Cioè che favoriscano l’emergere del criterio dell’utile e del frugale.

Giustamente Letizia si chiede:

“Esistono movimenti sociali consapevoli ? Sicuramente si. Ma sono efficaci?”

Sono efficaci i movimenti? si chiede Letizia, e il dubbio è legittimo: i movimenti che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni (diciamo: dopo Genova 2001) sono stati una prova di impotenza della politica, della volontà, della ragione.

Gli automatismi del potere finanziario e militare hanno prevalso in modo sistematico, cancellando ogni spazio per la democrazia e per i movimenti. E allora cosa vuol dire “politica”? Partecipazione? Partecipazione è una parola sporca. Partecipazione all’infamia di una società che eredita cinque secoli di colonialismo, schiavismo, guerra e non può trovare la via per uscire da quel passato perché quella via non c’è?

Non partecipare è l’imperativo etico. E allora cos’è politica?

Ludovica, in un empito di vitalismo solidale, scrive:

“Politica è vita: nel senso di attivazione di un’energia vitale collettiva salvifica, ma anche di energia creativa che mi tiene in vita. La politica non ha niente a che fare con le elezioni o l’amministrazione. Politica è l’odio per la politica. Niente a che fare con l’attivismo o il volontariato. Politica ha forse più a che fare con l’arte e la poesia, nel senso creativo e immaginifico che entrambe racchiudono. Politica è decostruirsi tutte insieme. È la gioia dei cortei. È l’atto sessuale non normativo. È la collettività che si cura. È vedere oltre la piccolezza della propria vita. È tirare giù le statue. È fare i pranzi popolari. È lottare per il diritto all’abitare, prendersi le case. È fare le autoformazioni, imparare, litigare, mettere in crisi. È sognare in grande, oltre i muri di questa città. È l’unica possibilità di salvezza.”

Riccardo, di Roma, scrive:

“credo che qualsiasi forma politica debba passare attraverso l’umiltà, con tutta la vaghezza che questa parola comporta. In questi tempi in cui prevale l’incertezza, fare politica probabilmente è inutile, ma al tempo stesso mi sembra anche l’unica cosa necessaria.”

E Bruno:

“…spesso i movimenti sociali sono nati proprio quando si riteneva che non sarebbero potuti più nascere.”

Conclusione inconcludente ma curiosa

Quale tonalità psicologica emerge da questa assemblea psico-sferica che qui concludiamo?

Giunge a compimento una mutazione psichica collettiva prodotta da quattro decenni di avvelenamento neoliberale. Giunge a compimento ma come? E’ possibile dare alla transizione una forma di coscienza collettiva? E’ possibile collettivo in assenza del corpo?

Alla domanda se ci saranno ancora movimenti sociali e come si possano definire i movimenti, Costanza risponde con una frase che mi ha molto impressionato: “penso che i movimenti sociali facciano esplodere delle latenze inespresse con forme spesso rabbiose e cieche al dialogo, ma non sempre.”

Latenze inespresse, modi di vita possibili ma non ancora pensati.

L’espressione della latenza spesso è rabbiosa e cieca al dialogo.

Ma Costanza conclude:

“Credo nella resistenza minuta, quella sottovoce.”

Solo Riccardo fa riferimento ai movimenti del passato, anche se nel contesto di una possibile istantaneità globale.

“Mettendo da parte qualsiasi forma di nostalgia, credo che il Sessantotto possa essere un riferimento strutturale: nessuno si mise lì a progettare cose, eppure a un certo punto la cultura, la politica e tante altre cose insieme fecero in modo che si creasse quel forte scossone che cambiò le vite di chiunque. Oggi i movimenti sociali potrebbero servirsi di una tecnologia super-raffinata e connettere le persone di quasi tutto il mondo in maniera istantanea.”

Alice, invece, ridefinisce il movimento come “barriera protettiva”:

“Vuol dire prendersi cura della propria comunità. Fare rete. Creare parentele (kin). Tenere insieme questi contatti, tenere vivi i rapporti. Creare famiglie con chi ha gli stessi valori ma anche con chi ne ha di diversi. Stare vicino a chi sta male. Parlare della propria paura perchè gli altri non si vergognino della loro. Condividere le proprie difficoltà. Cercare di non giudicare gli altri per le proprie scelte. Resistere così allo sfruttamento dei corpi, del suolo, delle acque. Creare una barriera protettiva.”

Bruno, dopo aver detto: “queste mie risposte stanno prendendo una piega wertheriano-depressiva abbastanza allucinante.” scrive: “I movimenti hanno “funzionato” solo nel momento in cui sono sorti, come brevi attimi di liberazione, di autonomia dal precipitare della slavina storica e dal diktat dell’assenza di alternative al nostro sistema economico, sociale, culturale e affettivo.

Discorso diverso si potrebbe fare per il femminismo, per quanto oggi fatto brand e posa accademica: mi sembra che la sua forza risieda ancora nella pratica corpuscolare e quotidiana delle singole (che poi possono diventare masse di singole, d’accordo), che trasforma innanzitutto la loro propria vita, e poi quella delle persone che stanno loro intorno.

Sono troppo capital-realista?”

L’introiezione del realismo rende tormento l’utopismo etico.

La via di fuga è nella sfera estetica: sublimazione o forse sperimentazione.

Forse nella sfera estetica si elaborano nuove “attese di mondo”.

Non voglio dire le “speranze”, ma proprio le “attese di mondo”.

La speranza si limita ad auspicare, magari si fa volontà (impotente). L’attesa di mondo è concreta immaginazione di un possibile. Sulla modellazione di attese di mondo si costituisce il potere.

E dalla modellazione di altre attese di mondo trae origine ogni movimento.

Nei secoli moderni si è immaginato e atteso il futuro come evento liberatorio: la Nazione, la crescita, la democrazia, il comunismo,, la libertà l’uguaglianza…

Ora l’attendere ha una caratteristica emotivamente diversa: l’attesa che il neoliberismo ha prodotto è quella di un’eterna ripetizione dell’identico automatico, e la rottura che si va facendo sempre più attendibile non ha carattere liberatorio, ma catastrofico.

Per questo la paralisi dell’immaginazione potrebbe funzionare come una sorta di “purificazione“ (parola usata da Chiara), ovvero come un disentanglement: uno scardinamento degli automatismi che rende possibile una reinvenzione che non era possibile fin quando gli eventi quotidiani si concatenavano in modo ineludibile. Il virus ha rotto quella catena logica.

Nel passato il globalismo ha enormemente allargato le possibilità di esperienza virtuale e in qualche misura anche le possibilità di esperienza vissuta. Però si è determinato uno scarto incolmabile tra l’accelerazione del desiderio e la possibilità di godimento, tra l’espansione del campo delle attese e la riduzione del tempo disponibile: un circuito ansiogeno, un senso di inadeguatezza colpevole, con esito depressivo probabile.

La pubblicità ha esteso lo spazio dell’immaginabile: ha reso possibile a una contadina nigeriana identificarsi con la modella francese che usa una certa crema per il viso, e l’ha spinta a desiderare di trasferirsi laddove quell’esperienza è possibile.

La popolarizzazione dei trasporti aerei o navali ha accresciuto questo desiderio, rendendone pensabile la realizzazione. Ma quando la contadina nigeriana raccoglie i soldi necessari per il viaggio e si mette in cammino, quel che l’aspetta è probabilmente la morte per annegamento, uno stupro nei campi libici finanziati dal governo italiano, oppure la cattura da parte del mercato della prostituzione. Questo è un caso estremo certo, ma tutto il castello del globalismo liberista è analogamente costruito sulla diffusione massiccia dell’illusione nota anche come American dream. Se ti impegni puoi farcela, ma impegnarsi nella gara vuol dire rinunciare al proprio piacere, al proprio tempo, e talvolta anche alla propria dignità. E non è detto che vinci.

L’illusione neoliberista mette tutti in competizione e alla fine chi vince non vince niente.

Adesso lo stanno scoprendo tutti, che la promessa era falsa perché non c’era niente da vincere, la posta era falsa.

La storia del ventesimo secolo era marcata da una forma di stoicismo operaio che si fondava sulla consapevolezza che solo la solidarietà può offrire una via d’uscita magari solo temporanea dall’inferno dello sfruttamento. Ma la solidarietà operaia non si fondava tanto sulla prospettiva di un futuro migliore, del comunismo a venire quanto sulla consapevolezza che solo la solidarietà quotidiana, solo l’organizzazione autonoma può rendere il presente tollerabile, sulla comune sofferenza di una condizione inumana da cui può nascere, grazie alla solidarietà, una (magari provvisoria) comunità umana e magari felice.

Pietro delinea una possibilità di evoluzione post-traumatica:

“Penso che il grosso problema, molto sottovalutato, è che il nostro cervello, per quanto possiamo provare a razionalizzare la cosa, colpevolizza automaticamente. Ci sentiamo automaticamente abbandonati. È qui il trauma con effetti a lungo termine. Non sento tanto la questione dell’isensibilizzazione fobica al contatto corporeo essendo giovane e non avendo mai avuto veramente paura del virus. Ho vissuto invece profonda angoscia e solitudine e sono caduto a tratti nel senso di abbandono di cui parlavo. Temo di più quindi una insensibilizzazione anedonica depressiva nel contatto con l’altro.”

Quello che scrive Pietro mi pare sensato: insensibilizzazione anedonica vuol dire che si disattiva inconsciamente il desiderio perché questo è stato doloroso per un certo tempo, o forse da sempre. E’ probabile, ma tutt’altro che certo che le cose vadano così, che l’evoluzione dell’inconscio collettivo segua una parabola depressiva.

A questo proposito scrive Francesco, 45 anni:

Stiamo parlando della dialettica tra forze e forme del campo percettivo, del dipanarsi dell’enunciazione, ma anche delle mutazioni del vivente e del divenire delle forme sociali. Stiamo parlando del magma di differenziali eterogenei che costituiscono la potenza dell’eterogenesi. Saranno soggettività umane e non-umane a comporre gli spazi di possibilità delle forze e delle forme a venire.”

In effetti, per parafrase Francesco dirò: il tema di cui stiamo parlando è la relazione tra il magma e la forma, tra il caos e il senso. Nel caos virale si dibattono forme esistenti che si sgretolano, collassano, si induriscono, si ricostituiscono poi perdono di nuova consistenza e infine si dissolvono. Ma si dibattono anche forme non ancora esistenti, non ancora emerse che noi non conosciamo ma a un certo punto cominciamo a intuire.

E ancora Francesco, che è ricercatore e si occupa di neuro-ottica, sintetizza l’esperienza dell’immobilità sindemica con un esempio:

“Mi sono incaponito a fare un esperimento stupido, uno di quegli esperimenti da mistici de noantri. Volevo sapere cosa si vede fissando lo sguardo in un punto. L’ho fatto e non succede niente di speciale. Pero’ dalla fisiologia ho imparato che più l’occhio cerca di fissarsi più si muove con degli spostamenti infinitesimi che si chiamano microsaccadi. Quindi l’esperimento che ho fatto non vale e avrei voluto farlo senza movimenti saccadici. Te la faccio breve: ho trovato testimonianze di pazienti che per motivi patologici di varo tipo non hanno saccadi e quindi possono davvero fissare lo sguardo. E quando loro si fissano su un punto … tutto sparisce. Vedono nero come se qualcuno gli avesse spento la luce. Quando il loro occhio non si muove e tutto è fermo nel loro spazio visivo non vedono nulla. La neurofisiologia spiega questo fenomeno osservando che la risposta delle cellula è sempre una differenza temporale tra l’immagine in un certo istante e quella dell’istante precedente. Se le immagini sono uguali la differenza è nulla. Ho scoperto poi che questo fenomeno c’è anche per il tatto e per gli altri sensi. Cioè quello che conosciamo del mondo attraverso i sensi non sono che trasformazioni. Non appena le trasformazioni cessano, cioè c’è una stasi del divenire (l’essere) allora subentra il nulla. Tutto è trasformazione. L’essere è il nulla.”

E poi con tono vagamente sconsolato, conclude:

“In verità di tutto questo penso che una volta c’erano gli abbracci ma ora che non ci sono più non ci resta che diventare mistici. “

Mistici, dice Francesco, mine de rien. Mistici con le antenne.

Ma cosa stanno cercando le antenne, su quali lunghezze d’onda si sintonizzeranno?

La risposta di Costanza mi è arrivata per ultima, e forse contiene la frase con cui mi piacerebbe chiudere:

“Non so con chi sarò, ma sulla strada non si è mai soli. Le emozioni che

prevalgono in me sono molteplici e contrastanti: ho iniziato ad ascoltarle e

sentirle più intensamente dallo scoppio della pandemia. La curiosità della

scoperta vince sempre comunque.”

Post-scriptum

Alla fine del questionario c’era una domanda: parteciperesti a un seminario in zoom su questi temi? L’idea stessa del questionario doveva essere una sorta di indagine preliminare a un seminario.

La grande maggioranza delle risposte a quella domanda è: sì.

Ma durante la lettura delle domande l’idea del seminario si è confusa nella mia mente fino ad apparirmi un progetto che non sarei in grado di reggere.

Non sono io la persona che può fare un tentativo di questo genere. Lo svolgimento dell’inchiesta, le risposte, l’analisi delle risposte hanno avuto su di me (sarebbe inutile nasconderlo) un effetto vagamente depressivo, e non mi hanno motivato a rilanciare la discussione in maniera più intensa.

Forse qualcuno può decidere di fare ciò che io non mi sento in grado di fare.

In ogni caso ringrazio tutti coloro che hanno avuto la cortesia di rispondermi.