Settembre 1977: l’inizio della fine

Settembre del 1977 è stato il mese più triste della mia vita.

Il mese della solitudine nell’esilio, quando i miei compagni si dirigevano verso il convegno di Bologna. Il mese della disfatta e l’inizio della fine.

Nello stesso periodo Margaret Thatcher si preparava a prendere il potere col so progetto di distruzione della società, la creazione di Apple era una promessa che ben presto divenne una minaccia. Charlle Chaplin morì alla fine di quell’anno e i Sex Pistols urlavano che il futuro non esisteva più.

Dal punto di vista del movimento italiano tutto quello che si era costruito nella vita collettiva, tutto quel che si era creduto indistruttibile fu distrutto da coloro che avevamo considerato compagni e complici. Il movimento dei giovani studenti e proletari che era espressione della solidarietà e dell’immaginazione venne distrutto e dissolto per ragioni meschine di egemonia.

Le centomila persone che erano venute a Bologna da tutta Italia e anche da molte città europee, sperando di trovare delle idee all’altezza dei tempi e dei progetti capaci di trasformare l’onda iniziata nel 1968 in un vero processo di trasformazione della vita quotidiana furono disperse, nel tentativo di far di loro un esercito disciplinato di militanti.

La parola magica che erano venuti a cercare fu sostituita con le vecchie parole della tradizione politica leninista, dalle ossessioni dell’egemonia armata, che non avevano più nessuna vitalità come negli anni seguenti divenne chiarissimo.

La colpa di questa sconfitta, occorre dirlo, va attribuita anzitutto a coloro che concepirono questo Convegno che si svolse a Bologna il 26 e 27 settembre: cioè a me, a Felix, a qualche altro compagno.

Io, Felix e qualche altro compagno nel Luglio di quell’anno, a Parigi cove mi trovavo rifugiato perché in Italia volevano arrestarmi, decidemmo di convocare i ribelli d’Europa nella città che era stata teatro di un movimento che si era battuto contro il capitalismo e contro il socialismo autoritario, il teatro dell’ultima insurrezione proletaria del ventesimo secolo e della prima rivolta cognitiva del secolo post-industriale.

Non fu un errore scegliere quella città, né fu un errore convocare, per la prima volta, un incontro politico e culturale a vocazione europea.

Ma l’errore (del quale assumo in prima persona oggi la responsabilità, poiché fui io che proposi quel titolo) l’errore fu di scegliere come tema del convegno la repressione.

CONVEGNO CONTRO LA REPRESSIONE lo chiamammo.

La scelta della città era legittima, sia ben chiaro, perché a Bologna c’erano ancora decine di persone incarcerate per la rivolta di marzo. Avevamo ragione di protestare contro la detenzione di più di trecento autonomi studentesse, operai, intellettuali, e contro la militarizzazione imposta da Francesco Cossiga, l’assassino di Francesco Lorusso, Giorgiana Masi e molti altri. Avevamo ragione di parlare di repressione, di riprendere l’appello degli intellettuali francesi che all’inizio dell’estate avevano denunciato il clima di aggressione instaurato dallo Stato italiano e sostenuto dal PCI.

Avevamo ragione, ma non avremmo dovuto farci sommergere dall’ossessione della repressione, non avremo dovuto giocare un gioco simmetrico a quello dello Stato. Non avremmo dovuto rinchiuderci dentro i ristretti confini della situazione italiana, e nelle categorie politiche del ventesimo secolo.

Avremmo dovuto essere capaci di affacciarci al futuro, di immaginare le nuove tendenze sociali e culturali che si preparavano nel divenire della crisi del capitalismo industriale, avremmo dovuto dispiegare l’immaginazione tecnologica e mediatica che si era già manifestata nel movimento delle radio libere.

Avremmo dovuto evitare di farci intrappolare nelle categorie prevedibili della politica rivoluzionaria del ventesimo secolo che cominciava a svanire proprio in quell’anno 1977.

Avremmo dovuto dedicare quel convegno all’immaginazione di futuro, dei futuri possibili, dei futuri probabili, dei futuri inevitabili. Non avremmo evitato l’aggressione fascista il cui vento soffiava dal Cile di Pinochet, non avremmo evitato l’aggressione liberista il cui vengo soffiava dall’Inghilterra di Thatcher. No, non avremmo potuto sfuggire. Ma avremmo evitato l’aggressione interna di tutti gli sciacalli del leninismo ossessivo e dell’organizzazione stalinista armata.

E soprattutto avremmo chiamato all’invenzione di forme nuove di organizzazione, di comunicazione, di autonomia socia, piuttosto che dare lo spettacolo miserabile delle organizzazioni che litigavano per dividersi le spoglie del movimento che non era ancora morto e che dilagava nelle strade di Bologna senza curarsi di quello che facevano i cinquemila militanti chiusi dentro il palazzo dello sport.

Il giorno dopo la fine del Convegno internazionale di Bologna il movimento era in agonia. Una parte si riconobbe sotto le bandiere delle organizzazioni militanti armate. Una parte si perse nei corridoi dell’eroina. La maggioranza si disperse nelle tristezze individuali nella competizione professionale, nel conformismo e nella disfatta esistenziale.